martedì 27 agosto 2013

La dea



 Dal libro dei racconti improbabili, ma non impossibili

                                                                                                                        200000 a.C.
Leila faceva parte di un piccolo branco. Camminava con molta attenzione  guardando bene dove mettere i piedi nudi. Nulla   le sfuggiva di quel succedeva sul terreno e così doveva essere, perché la sopravvivenza, allora, era la terra e ben  poco il cielo. Il sole lo percepiva comunque, anche con gli occhi bassi: caldo invadente quando c’era, gelo e buio quando non c’era.
C’aveva messo del tempo,  ma a forza di guardar per terra,  aveva imparato a cogliere le piante giuste e a selezionarle. L’olfatto acutissimo l’aiutava a percepire gli aromi giusti: sapeva riconoscere le piante velenose senza toccarle, senza quasi vederle Quell’odore amarognolo, che sapeva di morte, colpiva le sue narici mettendola in guardia.
 E intanto le giornate passavano, ed erano molto intense. Ogni giorno si faceva una scoperta.
Vivere era faticoso, il lavoro continuo e Leila si chiedeva se fosse stato  proprio così  necessario quel salto evolutivo.
Naturalmente  non erano esattamente questi i termini del suo pensiero. Che ne poteva sapere di evoluzione una donna all’alba del mondo?  La sua era solo un po’ di nostalgia per il passato,  quando tutti loro avevano le braccia un po’  più lunghe ed erano un pochino più pelosi, ma sembrava che: vivere fosse più facile, tutti si amassero di più e il mondo fosse un posto migliore. Anche quel camminare a due zampe era stata una conquista recente e terribilmente faticosa: la sera, la schiena era a pezzi e Leila provava invidia per la tribù delle scimmie, che aveva continuato a vivere a quattro zampe. Invidia e rabbia, che attanagliavano  lei e il suo branco quando si trovavano di fronte quegli esseri così simili, che competevano con loro, per il cibo e il territorio. Invidia per gli animali, tutti gli animali, che sì, è vero, non avevano capito tutto quello che sapevano loro, ma che, proprio per questo, sembravano più felici.
Bisognava distruggerli, loro e gli altri che occupavano la terra, quella terra, che bastava a mala pena al branco.
E fu così, per invidia, che inclusero tra le loro attività, l’uccisione di un po’ di quelle bestiacce troppo felici:  un po’ di più di quelle che realmente  sarebbero servite  alla loro sopravvivenza.
Leila non conosceva  la notte. All’imbrunire si nascondeva, con il resto del branco, nelle caverne: in fondo, molto in fondo, nel buio completo. E lì dormivano, assieme, profondamente, abbattuti dalla stanchezza del quotidiano.
Nessuno  conosceva l’insonnia: non dormire significava non avere la forza di vivere il giorno dopo.
Una notte però successe qualcosa di strano. Leila si svegliò e  sentì un desiderio irrefrenabile di uscire dalla grotta. Più tardi, molto più tardi,  questo impulso sarebbe stato catalogato, con una certa sufficienza, come curiosità tipicamente femminile, ma quella notte, la curiosità ci portò molto in alto. 
Quando uscì e guardò il cielo, Leila non respirò per alcuni istanti. La meraviglia, lo stupore le avevano fatto dimenticare le funzioni vitali. Vide il buio, vide miriadi di piccole luci e soprattutto vide Lei, un oggetto luminoso bellissimo.

  La donna, allungò le braccia come per sfiorare  la cosa luminosa. Voleva prenderla, toccarla stringerla a sé come  fosse una sua proprietà. Ma le mani tornarono vuote.
Una dea:  non poteva che essere una dea quella luce fredda, bianca, inafferrabile. Leila si inginocchiò, ma non chinò il capo. Lei era troppo bella perché si potesse smettere di guardarla.
   E così Leila ora sapeva che la notte aveva la sua divinità  e quelle luci, che appena illuminavano il buio profondo senza scaldare la Terra, ma solo il  suo cuore, dovevano essere le sue compagne.
Non l’avrebbe detto a nessuno: non quella sera. I riti collettivi  a più tardi, quando si fosse sentita pronta a  condividere la scoperta con tutti quelli del branco. Anche con quell’odioso uomo grasso che, con la scusa di essere il più forte, pretendeva di comandare. Erano discussioni infinite. No, la dea sarebbe stata solo sua, almeno per un po’.
 Rimase perciò lì con il naso per aria ancora per molto tempo. Era davvero un peccato che non sapesse scrivere: un po’ come ci vorrebbe la macchina fotografica. Le cose, quando servono, non ci sono o  non sono ancora state inventate.
Se non fossimo stati così indietro con la comunicazione,  Leila, quella sera, avrebbe composto una lirica, che i posteri avrebbero conservato come la più alta delle espressioni umane.
La donna ritornò fuori dalla grotta  la notte successiva e le altre dopo, camminando sempre silenziosa e preoccupata per il rumore del suo cuore che le pareva troppo forte, così forte da poter svegliare qualcuno. Non certo il ciccione, che  di notte dormiva sodo.
Vide così la Luce cambiar la sua forma, rimpicciolirsi notte per notte, come se qualcuno la stesse rosicchiando. E si preoccupò. Ormai la Luce era una sottile falce nel cielo. E se fosse scomparsa per sempre? Se davvero un misterioso mangiatore di raggi l’avesse inghiottita? O peggio,  se fosse stata lei a causarne la fuga?
Anche le donne primitive avevano l’abitudine di colpevolizzarsi: questo atteggiamento è innato, come la poesia.
 La disperazione la colse, la sera in cui della Luce non ci fu più alcuna traccia.
Leila pianse al punto di finire le lacrime.
Le giornate divennero pesanti per lei, che deperiva a vista d’occhio. Il  branco se ne accorse e alcuni pensarono  che presto avrebbero  dovuto fare anche il suo lavoro, ma che avrebbero  anche  potuto occupare i tutti i suoi spazi. La morte non suscitava troppi problemi  agli umani appena evoluti.
Poi, una notte, Leila rivide la Luce anche se sottile, evanescente arco. Subito  pensò che le sue lacrime avessero convinto il mangiatore di raggi a risputarne i pezzetti e quando, notte dopo notte, il ladro misterioso  li ebbe rimessi lassù, tutti,  lei fu così felice che  svegliò il branco e  li condusse
 fuori, a guardare quella meraviglia. E allora gli uomini uscirono e ammutoliti  si inginocchiarono.
 E  così,  la Luce della notte  divenne dea e il magico fluire delle sue forme regalò agli uomini, una delle chiavi delle infinite porte del Tempo.

Questo post partecipa al 3° Carnevale della Letteratura ospitato da Maria Cuccaro su Skipblog


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